Uno spettro si aggira per la Siria… anzi due! (pt. 1)

Questo è il primo episodio di una serie di articoli che ci porteranno dietro le quinte dello scacchiere mediorientale. I successivi capitoli saranno pubblicati nel corso delle prossime settimane! - TBU

Durante la Seconda guerra mondiale, nel periodo che intercorse tra l’invasione della Polonia e la campagna di Francia, ci fu una pausa nei combattimenti tra le diverse super potenze dell’epoca (il Regno Unito, la Germania e per l’appunto la Francia). Questo momento di sostanziale rilassatezza tra i belligeranti venne in seguito etichettato dagli storiografi d’Oltralpe come drôle de guerre e cioè la “guerra strana”.

Quella che si svolge in Siria probabilmente potrebbe ricadere sotto la stessa identica etichetta della guerra combattuta oltre settant’anni fa, se non fosse che a Damasco, Homs, Aleppo e molte altre città piccole e grandi, bombe e pallottole continuano a fischiare senza tregua. E allora perché “guerra strana” per descrivere gli scontri che oramai da tre lunghi anni martoriano la Siria e i suoi abitanti? Poiché raramente – forse mai – si è visto un conflitto alimentato da così tanti attori internazionali, al punto che paradossalmente questi ultimi sembrano aver quasi rubato la scena a quelli che dovrebbero essere i protagonisti, e cioè i siriani stessi.

“Guerra strana” perché i principali tra gli attori internazionali – la repubblica d’Iran e la monarchia saudita – sopra menzionati, sembrano aver deciso di testare per la prima volta (anche se la guerra civile in Afghanistan, antecedente all’intervento americano del 2001, potrebbe essere presa a riferimento come una sorta di capostipite per questo nuovo tipo di conflitto) le rispettive potenzialità e forze a disposizione, utilizzando la Siria come un enorme campo da gioco e i siriani come incolpevoli comparse di questa immane tragedia.
Per gli amanti del gergo tecnico si chiamerebbero proxy war quelle guerre nelle quali due potenze – nel nostro caso regionali ma può trattarsi anche di giganti, basti pensare ad USA e URSS durante la Guerra fredda – passano alle maniere forti nel dietro le quinte, quando ufficialmente e alla luce del sole dialogano o stringono trattati di non proliferazione.

Mappa tratta da Limes
Nel caso siriano, ma come sempre accade nei corsi e ricorsi della storia umana, gli interessi economici si intrecciano inestricabilmente con le differenti visioni religiose. Ciò perché il regime di Bashar al Asad non costituisce soltanto uno dei pochi alleati su cui può contare il regime degli Ayatollah nella zona, ma poiché rappresenta anche un ramo cadetto (quello alawita) del non particolarmente robusto albero dello sciismo, a sua volta ramo minoritario dell’Islam. Ma se il ramo è nato corto, i frutti sono caduti lontano. E così, propaggini e minoranze più o meno consistenti (quando non vere e proprie maggioranze) dell’albero sciita si possono ritrovare anche in Qatar, Bahrein, Kuwait, Iraq e nella stesso regno degli al Saud. E se dal dato sull’appartenenza religiosa si fa partire una linea che colleghi direttamente questi paesi ai membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (organo nato soprattutto dall’impulso di Arabia Saudita e Stati Uniti) si potrà notare che parecchi nomi sono gli stessi per entrambi gli elenchi.

A ciò si aggiungano diversi altri punti a favore dell’Iran: una popolazione numerosa, giovane e istruita (fattore che però, come dimostrano le proteste del 2009, può anche costituire un problema di non poco conto), produzione e riserve di petrolio e gas naturale che temono pochi rivali, un nuovo presidente, Hassan Ruohani, su cui Obama ha scommesso tutte le sue residue speranze di scongiurare un ennesimo conflitto tra Israele e il mondo arabo e che ha saputo dare ossigeno ai negoziati sul nucleare iraniano, sbloccando così diversi miliardi sparsi in diversi conti esteri prima vincolati dalle sanzioni occidentali e necessari a far fiatare la sempre più asfittica economica di Teheran.

Messi in fila, questi elementi non possono illustrare l’intero quadro, ma almeno aiutano a cogliere alcune tra le cause del nervosismo di Riyad nei confronti di qualsiasi progetto iraniano che guardi a questa sorta di riedizione del “cortile di casa” in salsa mediorientale.


L’Arabia Saudita, sfuggita al controllo (davvero mai esercitato?) di Washington, suo principale sponsor internazionale, sembra oramai appoggiare in toto i ribelli islamisti in Siria che spesso si rifanno più o meno esplicitamente ai gruppi qaedisti come il Fronte al Nusra e che, sempre più violente e spietate, sono sfuggite a loro volta al controllo del loro più importante finanziatore (nonché supposto mentore religioso), scatenando così la reazione di un’ampia coalizione di forze anti Asad “laiche”, come l’Esercito libero siriano e altri gruppi moderati. Dettaglio questo, che tra l’altro ha permesso ai lealisti di Asad di riconquistare molto del terreno perso negli ultimi tre anni di guerra civile.

E se dal lato militare gli ostacoli non sembrano mancare, neanche sugli altri fronti la petrolmonarchia può dirsi tranquilla: le minoranze sciite delle province orientali e i primi vagiti di un’ancora acerba società civile costituiscono preoccupazioni minori per la casa regnante, ma rappresentano anche evidenti spie di un malcontento che richiede risposte nuove, soprattutto se l’Arabia Saudita vuole ottenere quello status di potenza regionale che aspira a rivestire. 
A tutto ciò si deve aggiungere il raffreddamento nei rapporti con l’amministrazione Obama, meno propensa dei suoi predecessori a concedere l’ennesima apertura ai venti di guerra provenienti da Israele e che di certo vuole seguire con sempre maggior convinzione il sentiero della diplomazia e dei negoziati per risolvere la scottante grana del nucleare iraniano.

Ma ora il giocattolo sembra essersi rotto per entrambi i principali poli di influenza regionali, sfuggendo di conseguenza dalle mani dei suoi creatori e così, se da un lato abbiamo esplosioni di violenza sempre più incontrollabili e ampie, dall’altro il monstre irano-saudita-siriano ha generato tanti altri casi minori di “guerre strane”; in primis Libano e Iraq, anche se non molto lontano si agitano diverse altre zone turbolente, solo geograficamente distanti da Riyad o da Teheran come l’Afghanistan, la Palestina e l’Egitto. 

Marco Colombo

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